Il Karate-Do, il bambino iperattivo e la disciplina interiore

E' in corso in Italia una guerra di religione, quelle che gli umani prediligono e, quasi per definizione, senza fine.

Uno scontro tra fondamentalismi clinici e pedagogici e, come in tutte le guerre di religione, tra opinioni su bene e male, su segni e simboli e la loro interpretazione.

È un dibattito tra schieramenti a favore o contrari alla esistenza (o inesistenza) di patologie comportamentali infantili, e in merito a cause e rimedi.

Da una parte, famiglie che lottano per ottenere il riconoscimento del loro dolore, reificato nel disagio dei loro figli iperattivi. Dall'altra, associazioni di professionisti che criticano le modalità di intervento della controparte o negano l'esistenza del disagio mentale infantile.

 

Situazioni che si ripetono ciclicamente nella storia della psichiatria moderna. Cambiano solo le diagnosi oggetto di scontro. Con ovvio timore, in tutto il mondo si segnala l'aumento della prevalenza dei disturbi neuropsichiatrici nell'infanzia e l'uso crescente di terapie farmacologiche.

Sentiamo sempre più spesso parlare di iperattività, di ADHD, acronimo che significa Attention Deficit and Hyperactivity Disorder (in italiano DDAI, Disturbo da Deficit di Attenzione ed Iperattività), che l'epidemiologia segnala colpirebbe fino al 5% della popolazione scolare, caratterizzato da grave incapacità di prestare attenzione, vivacità estrema ed impulsività. Non si tratta di bambini "maleducati". [omissis]

 

Ma la psichiatria è anche uno dei pochi settori della medicina dove due esperti possono avere impostazioni teoretiche antitetiche, giungere a conclusioni agli antipodi, e quindi esclusive, paradossalmente rimanendo entrambi "esperti". E qui torniamo alle guerre di religione. In ambito pedo-psichiatrico la faccenda si complica, perché i più piccoli posseggono un repertorio comportamentale osservabile limitato e lo stesso comportamento può avere più motivazioni.

 

Il pragmatismo americano ha creato il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), il manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali, una summa psichiatrica di

categorie diagnostiche, redatto e adottato da gruppi di lavoro internazionali, usate per motivi epidemiologici per dare coerenza transculturale e acausale, ai fenomeni osservati. [omissis]

Lo stesso ADHD è composto da fenomeni osservabili complessi (impulsività, attività motoria, capacità di prestare attenzione) con molteplici significati e manifestazioni anche in base all'età in cui si evidenziano. [omissis]

 

E mentre i fondamentalisti guerreggiano, dibattono, (e si dibattono) mentre nascono nuovi osservatori per l'infanzia, lamentando la perdita di valori e delle stagioni di mezzo, un gruppo di bambini, sotto la guida di esperti Maestri, si affrontano e si sfidano, o meglio, affrontano e sfidano sé stessi, combattono la loro difficoltà ad apprendere le regole sociali, pugnano con la loro irrequietezza e provano a conquistare uno spazio vitale in un mondo preoccupato per loro.

Per superare le aspre polemiche e andare al di là delle categorie, evitando che l'infanzia diventi una condizione patologica, da anni esiste in Italia un approccio "complementare" agli interventi tradizionali per l'iperattività. Le terapie complementari includono alcuni approcci validati e altri aneddotici, il cui scopo è arricchire l'intervento tradizionale. Nella realtà, però, la terapia complementare può, spesso, da sola, se ben fatta, rappresentare l'unico elemento terapeutico.

Per fare un esempio, tra i pochi approcci validati da verifiche rigorose, nell'ambito specifico dell'iperattività, è l'uso dell'olio di pesce, una miscela di acidi grassi polinsaturi, fondamentali per il normale sviluppo neurale e per il suo buon funzionamento. Un balsamo ittico, con cui ungere, dall'interno, una mente disattenta ed un corpo scatenato dimostratosi efficace nel ridurre i sintomi clinici.

La terapia complementare di cui sopra, invece, usa l'olio di gomito, un lubrificante naturale del lavoro, che riduce l'attrito tra il dire e il fare. Un crisma terrestre che deriva da un esempio, dall'esposizione a figure e comportamenti coerenti, dall'imitazione di modelli, che diventano miti personali, ideali introiettati, madri, padri, i nostri maestri. Maestri la cui gestualità, prima delle parole, ci trasforma lentamente nel maestro di noi stessi, sapendo che l'esperienza personale è una necessità assoluta. Ma come portare il bambino all'esperienza personale?

 

Da circa cinque anni la Federazione Italiana Arti Marziali ed il Centro Studi Karate Yo Sho Kan di Roma utilizzano il Karate come "intervento" nell'ambito di problematiche dell'età evolutiva che interessano la sfera cognitivo-sociale.

L'intervento avviene nei Dojo, termine che indica il luogo di studio delle discipline marziali giapponesi dove il Do è una via da seguire per il raggiungimento dell'equilibrio interiore attraverso la pratica del Karate. La via del Karate è il Karate-Do, come per l'Aiki-Do, la via dell'armonia, il Ju-Do, la via della cedevolezza, il Ken-Do, la via della spada.

 

Il Dojo è il luogo in cui si persegue l'equilibrio, anche attraverso l'esecuzione di movimenti, curando con meticolosità il dettaglio gestuale.

Il progetto, “Dal Dojo alla Famiglia alla Società”, si fonda sulle similitudini tra il Karate ed il percorso evolutivo che porta allo sviluppo di competenze adatte alla vita di relazione.

 

Di fatto il Karate, insegnato tradizionalmente e praticato con costanza e metodo, influisce sulla plasticità del sistema nervoso: un fenomeno fondamentale per l'apprendimento, che indica la capacità del cervello di riorganizzarsi, dopo un danno, o di organizzarsi in seguito ad esperienze, sviluppando nuove connessioni neurali

 

A livello comportamentale i fenomeni plastici si traducono in cambiamenti permanenti. Uno studio pilota pubblicato un anno fa sull'International Journal of Offender Therapy and Comparative Criminology ha dimostrato che il Karate riduce tratti temperamentali che mediano lo sviluppo di comportamenti devianti. La pratica tradizionale del Karate ha come scopo specifico la coltivazione della mente e favorisce in modo sistematico e forse unico, se paragonato ad altri sport, la coordinazione mentale e lo sviluppo di capacità esecutive di automonitoraggio.

Ciò avviene dal primo giorno di pratica, senza dover raggiungere vette di performance sportiva, tramite lo stimolo specifico delle strutture cerebrali che sottendono la vita di relazione. L'acquisizione della consapevolezza del proprio corpo, aiuta a spostare l'attenzione dal pensiero all'azione.

 

L'attenzione del praticante è stimolata dal primissimo momento in cui varca la soglia del Dojo, dove l'ambiente semplice, il punto di riferimento unico del Sensei (il Maestro), l'uguaglianza sociale imposta dall'uniformità dell'abbigliamento, e l'imitazione, sono altresì elementi fondamentali alla base del cambiamento

 

L'allenamento davanti ad uno specchio è ulteriore guida per l'esecuzione del gesto e, simbolicamente, costringe a guardarsi con semplicità ed immediatezza Shintoista.

Il linguaggio è minimizzato, ed il coinvolgimento del praticante è ottenuto tramite gestualità e intonazione vocale.

Questo, e l'uso della lingua giapponese per dare i comandi, svincolano il praticante da un ingombrante attaccamento al linguaggio parlato, favorendo in modo particolare nei piccoli, in cui la comunicazione non verbale è istintivamente privilegiata, una evoluzione naturale verso la calma interiore in virtù proprio dello spostamento dell'attenzione, analogamente ad altre pratiche meditative, sul movimento e non sul pensiero.

 

Il Karate evolve quindi in un ottica di dialettica, secondo un rapporto bilaterale mente-corpo, in cui, con Wittgenstein, si prende atto del fatto che il pensiero è ormai fiaccato e non si può più usare. Senza affidarsi a culti misterici o ad approcci teoretici, attraverso l'allenamento del corpo si allena la mente e il corpo stesso diventa tramite per la crescita morale e spirituale.

Non si tratta quindi di lezioni spirituali per giovani samurai, nè esercizi in senso devozionale, ma lezioni di rieducazione al silenzio ed alla lentezza da cui emergerà l'interiorità. [omissis]

 

Il distacco appreso nel Dojo deve guidare anche il distacco dell'adulto, madre, padre, maestro. Dove in passato i bambini erano un epifenomeno sociale, oggi sono un must genetico da aggiungere agli altri must, che hanno avuto, fino al loro arrivo, la precedenza. Sono guardati talmente da vicino, che la loro immagine diviene distorta o frammentata.

 

È interessante che la saggezza attribuita all'età, si associ al calo fisiologico della capacità di vedere da vicino le cose. Se la presbiopia è il risultato di cambiamenti del nostro sistema visivo, simbolicamente ci dovrebbe far pensare, in un'epoca in cui i figli arrivano ad un età in cui l'invecchiamento fisiologico è già avviato, e rischiamo di essere psicologicamente presbiti prima di diventare genitori, ma di non sapere di esserlo, fino al nostro primo mal di testa.

 

Nel Dojo si ricerca quindi il normale nel patologico e non viceversa. Con Rodari che ci mette in guardia dall'iperinterpretazione dei nostri figli, e con il Valentino pascoliano che ci rammenta che il bambino non sa ch'oltre il beccare, il cantare, l'amare, ci sia qualch'altra felicità, si guidano i bambini verso la scoperta che la mente può diventare più forte del cervello.

 

Ripreso ed adattato da “Il Karate-Do, il bambino iperattivo e la disciplina interiore“ pubblicato a gennaio nel n.8 della rivista Yoi Magazine, a sua volta ripreso dal supplemento culturale de Il Manifesto di Marzo 2008.

Autore M° Mark Palermo.